Il POTERE delle parole:
“Disabilità, invalidità, handicap, diversamente abile, non vedente, menomazione, difficoltà, sofferenza, diversità, discriminazione.”
Sono parole, sono tante, sono disordinate e spesso confusamente associate tra loro.
Non sono sinonimi.
Può sembrare un mondo lontano.
Per alcuni, per una percentuale di “alcuni” talvolta ben lontana dalla soglia dell’accettabile, l’argomento disabilità genera immediata dissociazione dal tema.Ci si può sentire distanti, ci si può sentire superiori, spaventati, in difficoltà, avvolti dalla comoda coperta di Linus del “non mi riguarda”, pur non avendo idea di cosa significhi questa lunga serie di termini.
Può sembrare un mondo lontano, eppure così non è.
Se è vero che il timore, da un lato, è stato per secoli il motore atto a garantirci la sopravvivenza, è altrettanto noto quanto la curiosità di fronte a ciò che appare sfocato possa aprire prospettive nuove, e vista la distanza che separa la nostra comoda, cara contemporaneità dal paleolitico, potrebbe essere ora di iniziare a fare chiarezza.
Disabilità, handicap, normalità.
Iniziamo da qui.
Viene definita come Disabilità la condizione di chi, in seguito ad una o più menomazioni, ha una ridotta capacità d’interazione con l’ambiente sociale rispetto a ciò che è considerato la norma.
Pertanto è meno autonomo nello svolgere attività quotidiane e spesso in condizioni di svantaggio nel partecipare alla vita sociale.
IN ALTRE PAROLE: è disabilità ciò che rappresenta una carenza, una perdita, una variazione inattesa a livello psicologico, fisiologico o anatomico.
È disabilità tutto ciò che, in misura ed intensità maggiore o minore, si discosta dalla normalità.Facciamo un esempio:
Se la normalità rappresenta uno standard della vista di 10/10 ed io, mentre scrivo, strizzo gli occhi per mettere a fuoco tentando di rimediare ad un astigmatismo o a una miopia piuttosto trascurati (menomazione), vivo una minima variazione nell’abilità di osservare il mondo (disabilità).
7/10.
Non è zero, non è due.Non è nemmeno dieci, e solo dieci è considerato normale.
In altre parole, vedo male. E vederci male, collocandosi sotto lo standard di normalità di cui prima, rappresenta una disabilità.
Una carenza.
È futile, è leggera, non importa.
Il concetto di disabilità appare ancora così lontano?
Ora immaginiamo cosa accadrebbe se per qualche motivo, in seguito ad un forte abbassamento della vista, non potessimo usufruire degli occhiali: Parliamo di Handicap.
Nel 1980, l’ICIDH (International Classification of Impairments Disabilities and Handicaps) dell’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, definiva l’handicap come lo svantaggio vissuto da una persona a seguito di disabilità o minoranza o menomazione.
IN ALTRE PAROLE: L’handicap altro non è che la conseguenza data dalla mancanza di adeguamenti e correttivi a disposizione dell’individuo per ovviare alla carenza portata dalla disabilità.
QUINDI:
L’handicap non è una caratteristica.
L’handicap non è parte dell’individuo.
L’handicap si vive, si subisce e si percepisce dal momento in cui l’installazione di una rampa d’accesso viene tolta dalla lista delle priorità, quando una carrozzina in aeroporto viene trattata come un bagaglio a mano qualsiasi e maneggiata come fosse una sedia pieghevole da spiaggia subendone le conseguenze. Quando un sito internet è completamente inaccessibile per un cieco, quando un bagno per disabili viene indicato come tale senza esserlo.
L’handicap esiste quando si rompono gli occhiali o le lenti a contatto cadono per terra.
Non è un termine dispregiativo se non nei confronti di chi, pur avendo note le norme giuridiche e di comportamento da attuare, decide di girarsi dall’altra parte.
La prima classificazione dell’OMS negli anni ha iniziato a mostrare numerose lacune:
Prima di tutto non considerava la possibilità di una disabilità transitoria e temporanea, quindi percepita come un concetto dinamico. Anche per questo, il livello e le caratteristiche per cui una persona potesse definirsi “disabile” non erano chiari e definiti, come abbiamo visto prima applicando l’esempio di un calo minimo della vista, che non porta chi si trova a dover indossare gli occhiali a parlare di sé stesso come di un portatore di disabilità. Ne consegue che possa esistere un’interruzione nella sequenza menomazione- disabilità- handicap: non per forza una persona menomata si definisce come disabile o portatrice di disabilità.Inoltre, come abbiamo visto approfondendo il significato di Handicap, se nell'ICIDH vengono presi in considerazione solo i fattori patologici, un ruolo determinante nella limitazione o facilitazione dell'autonomia del soggetto è in realtà giocato da quelli ambientali.
2001: LA NUOVA DEFINIZIONE
Dieci anni dopo la prima classificazione, l’OMS ha deciso di commissionare ad un gruppo di esperti il compito di riformularla tenendo conto dei nuovi concetti.
Nasce così l’ICF, International Classification of Functioning, detta anche classificazione dello stato di salute.
Questo nuovo modo di ordinare le definizioni non considera più le limitazioni delle persone, quanto più il loro stato di salute complessivo, definendo l’individuo “sano” come “in stato di benessere psicofisico”, ribaltando la concezione di “stato di salute”. E’ stata inoltre introdotta una classificazione riguardante i fattori ambientali, includendo non solo il funzionamento della persona a livello individuale, ma anche l’impatto e le conseguenze che non avere un correttivo a disposizione per ovviare alle difficoltà implicate dalla disabilità comporta nella partecipazione sociale.
La nuova definizione, entrata in vigore nel 2001 come nuovo standard di classificazione dello stato di malattia e di salute, venne approvata da quasi tutte le nazioni dell’ONU, trasformando il concetto di disabilità.
E POI?
Definire il concetto di disabilità è importante, ma è altrettanto importante capire che non esiste una definizione univoca che metta tutti d’accordo, non si tratta di un concetto universale.
Allo stesso modo la “normalità”, nonostante sia utilizzata come termine di paragone e confronto costante, non è poi una condizione tanto scontata e comune.
Non è il nostro obiettivo disquisire su cosa possa o meno essere considerato normale e su quanto complesso sia definirsi tali, o sul fascino proibito della possibilità di non identificarsi nel concetto quando si è i primi a corrispondervi.
Il nostro obiettivo è chiarire quanto sia importante la normalità come concetto raggiungibile.
Il bisogno della persona con disabilità non consiste nel trovare la frase perfetta che descriva al mondo la propria condizione, quanto più nel trovare un contesto ambientale che sia idoneo a ridimensionarla, contenerla o annullarne l’handicap che ne consegue.
Se non riesco a vedere e non ho a disposizione un paio di occhiali, mi sento disabile.
Se sono cieco e non ho posso usufruire di un modo efficace per muovermi in metropolitana, per strada, al supermercato, sul web, mi sento disabile.
Se sono in carrozzina e non ho la possibilità di andare in vacanza, mi sento disabile.
“Disabilità", come abbiamo visto, è un concetto che comporta infinite specificazioni, alcune impossibili da definire in modo univoco in quanto profondamente soggettive, dipendenti esclusivamente dalla scelta dell’individuo.
Quel che dovrebbe invece essere universalmente chiaro, è ciò che la disabilità non è:
Non è la giustificazione per legittimare discriminazioni, inaccessibilità, limitazioni che potrebbero cessare di esistere se solo venissero applicate le attenzioni necessarie, seguendo le norme e le regolamentazioni richieste, le attenzioni suggerite dal senso comune o, come spesso accade, da chi per primo si esprime per essere ascoltato.
La disabilità è stata, è e sarà un sacco di cose.
Ciò che non deve accadere, mai più, è che diventi sinonimo di esclusione.