Per lungo tempo le persone con disabilità non hanno avuto la possibilità di sentirsi rappresentate nel mondo dell’abbigliamento, e ancora oggi, nonostante qualche accenno di progresso, la strada sembra essere in salita. Sentiamo continuamente parlare di accessibilità, eppure dimentichiamo quanto questa non dipenda unicamente dalla presenza di rampe o di bagni accessibili -che comunque spesso non sono presenti dove dovrebbero- ma da ogni ambito della vita.Le persone con disabilità, nonostante costituiscano la minoranza più ampia presente al mondo, sono al contempo le meno rappresentate e assistite. Nella moda, il discorso è complesso e comprende più fattori.
Siamo cresciuti in un contesto sociale all’interno del quale le nozioni di “comodità” e di “eleganza” vengono etichettate come antagoniste per eccellenza. Se scegliere di essere comodi e vestirsi in modo funzionale significa accettare la probabilità di apparire trasandati, preferire di agghindarsi sottintende accogliere nella propria giornata un numero indefinito di scomode conseguenze. Certo è che si tratti comunque di due opzioni agli antipodi, che tra loro vedono la proliferazione di infinite sfumature.Soprattutto, si tratta di due opzioni agli antipodi che ammettono, per molte persone, un presupposto fondamentale troppo spesso dato per scontato: è una tua scelta. Che tu scelga di uscire di casa indossando tacchi vertiginosi e corsetti costrittivi o preferisca presentarti al mondo in pigiama e pantofole, resta una tua decisione.Ma cosa accadrebbe se questa non dipendesse più dalle tue preferenze? Cosa accadrebbe se gran parte delle persone desse per scontato che il modo in cui decidi di vestirti, ogni giorno, non fosse per te importante?
I vestiti offerti dalle grandi catene, disegnati secondo parametri approssimativi, sono inaccessibili e fonte di profondi disagi per chi non possiede un corpo in grado di indossarli facilmente o per chi deve servirsi di protesi, carrozzine e altri strumenti per per muoversi e condurre le attività di tutti i giorni. Un punto spesso sottovalutato è che anche il vestiario, se scomodo e inadatto, rappresenta un ostacolo per una vita soddisfacente.Un altro ambito troppo poco considerato riguarda invece l’aspetto economico.Dichiarando di non produrre capi accessibili le aziende si pongono in prima linea per chiudere la porta in faccia ad una larga percentuale di popolazione, trascurando le potenzialità che questa possiede.Solo negli USA, il potere d’acquisto delle persone con disabilità è stimato a quasi 500 miliardi di dollari.
Nel 2018 Asos creò una tuta adatta alle carrozzine e più avanti nello stesso anno, per la linea di un paio di orecchini, scelse una modella che indossava un impianto cocleare.Anche Tommy Hilfiger lanciò una linea di “Adaptive Clothing”, -così vengono definite le linee di abbigliamento accessibili- inserendo chiusure in velcro, bottoni magnetici e orli regolabili.Negli ultimi anni, inoltre, sono tanti i brand, emergenti non, dedicati a realizzare capi di adaptive clothing accessibili che, oltre a risultare funzionali, siano alla moda e offrano la possibilità di scegliere secondo le proprie preferenze ai clienti con disabilità.
Un caso emblematico di ambiguità per quanto riguarda l’adaptive clothing coinvolge un paio di scarpe recentemente rilasciate da Nike. Le Go FlyEase, uscite lo scorso aprile, sono le prime scarpe a poter essere indossate senza l’utilizzo delle mani. La tecnologia sviluppata per realizzarle le rende un prodotto accessibile su tutti i fronti, in grado di semplificare notevolmente la vita di molte persone.
Nonostante questo, e nonostante la scarpa raccogliesse tutti i presupposti per essere dichiarata e riconosciuta come un prodotto di adaptive clothing, la campagna pubblicitaria non raccolse foto o testimonianze di persone con disabilità. Il prodotto inoltre, fu limitatamente disponibile, acquistato in larga misura da collezionisti ed appassionati. Una dinamica che, com’è facile intuire, lo rende paradossalmente inaccessibile e “di nicchia”, a dispetto delle caratteristiche che lo compongono.
Un caso come quello di Nike denota una grande attenzione nella progettazione e nell’intenzione del progetto. Attenzione svanita però dal momento in cui questo entra all’interno delle dinamiche di pubblicizzazione e mercato. Un errore compiuto più frequentemente riguarda invece la disattenzione progettuale del prodotto, una dinamica dimostra quanto “le buone intenzioni” non siano sufficienti.
Non basta inserire calamite, allentare cuciture e rinforzare tessuti. Almeno non quando ad associare la lavorazione pratica manca il racconto di un’esperienza diretta. Solo questa può indirizzare la lavorazione per renderla davvero utile ed efficace. Collaborare con i futuri clienti dei brand e testare i prodotti prima di metterli in commercio è fondamentale per muoversi verso la giusta direzione. Serve strutturare un progresso finalmente tangibile.
L'abbigliamento dovrebbe essere un valore aggiunto per aumentare la dignità e il benessere di chi lo indossa. È per questo che nasce l’adaptive clothing.Per fare in modo che diventi una realtà completamente inclusa all’interno del concetto di moda, e non una categoria a parte, bisogna attuare una strategia che porti a massimizzare la rappresentazione. Anche questo è stato un passaggio complesso da attuare.Inizialmente, gli algoritmi dei maggiori social network riconducevano le foto di persone con disabilità, per esempio munite di carrozzina o di protesi, alla categoria di “materiale medico”. Questa classificazione riduceva nettamente la visibilità dei brand che coinvolgevano i testimonial in questione, relegandoli a restare pressoché sconosciuti.Grazie ad una raccolta firme, finalmente, le cose cambiarono.
Il principale problema che emerge dall’analisi degli algoritmi è che questi tendono a basarsi sulle stesse dinamiche di esclusione contro cui l’adaptive clothing si schiera. Solo quando si avrà un accordo paritario ed inclusivo tra l’aspetto legislativo, quello culturale e quello societario si potrà percepire un reale cambiamento. Che sia sui social o nella vita di tutti i giorni.Iniziative come quella dell’adaptive clothing andrebbero prima di tutto normalizzate. In tal modo il mercato potrà espandersi. Le persone interessate potranno acquistare capi adattabili alle proprie esigenze e saranno facilitate sia nella ricerca che nella scelta.
Non ha più senso che si parli di adaptive clothing come di un mercato di nicchia.I potenziali clienti sono tanti, e hanno lo stesso diritto di chiunque altro di sentirsi rappresentati dai capi che indossano senza pensare a quanto difficoltosi potrebbero essere da portare quotidianamente.La moda accessibile non dovrebbe essere un settore eccezionale, ma parte integrante del sistema moda, per offrire le stesse opportunità a chiunque confermandosi il settore inclusivo, egualitario e sostenibile che da tempo cerca di essere.